Chet Baker e la malinconia del jazz

La sera del 04 Novembre 1979 Chet Baker era di umore altalenante

Era tornato a Napoli dopo molti anni, ospite dell’Hotel Parker’s, la sera avrebbe dovuto suonare per l’inaugurazione di un jazz club di proprietà di un giovane imprenditore locale, Dino Luglio, che si chiamava City Hall Cafè: il trombettista dell’Oklahoma era irritato da un ricordo di circa venti anni prima, quando, durante una serie di concerti nel capoluogo partenopeo, era stato costretto a simulare il furto del proprio strumento, in realtà impegnato per fare fronte al suo cronico bisogno di una dose di eroina.

L’intera giornata era trascorsa in totale relax, Baker era pulito da qualche giorno, uscito da un rehab, anche se sapeva che presto il suo corpo sarebbe tornato a reclamare la quantità di “roba” necessaria alla sopravvivenza: chissà se gli occhi di un passante – appassionato di jazz - al Corso Vittorio Emanuele, sarebbero riusciti a distinguere gli zigomi pronunciati di Baker, che si stagliavano sulla vetrata panoramica dell’albergo, per una volta gli occhi erano rilassati, non intensi e distanti come quando suonava, la curva ampia e morbida del braccio che reggeva la tromba, a fare da contraltare.

L’essenza della vita di Baker, sino a quel momento, aveva riflettuto la sregolatezza del suo talento, un caos incessante intriso di genio, ma anche dalle dipendenze da droghe pesanti, che probabilmente costituivano le sue uniche consuetudini inveterate; l’infanzia in Oklahoma, l’adolescenza in California, e presto l’infatuazione per il cool jazz, che divenne passione bruciante e poi stilema stilistico, dopo l’illuminante incontro con Charlie Parker, un’amicizia che finì per cambiargli la vita, inducendolo a non abbandonare mai più il suo strumento, la tromba.

Baker aveva chiamato, dalla reception dell’albergo, il suo grande amico italiano Enrico Pieranunzi, pianista italiano di grande talento, con il quale puntualmente suonava il brano Night Bird, l’ultima delle quali eseguito in un club del quartiere Trastevere di Roma, dove amava fermarsi per comporre: Pieranunzi non l’avrebbe potuto raggiungere per impedimenti personali, ed improvvisamente Baker provò una forte malinconia, forse accentuato dall’incombenza del mare, che era un topoi ricorrente nel suo periodo nella West Coast, l’Oceano gli sembrava sconfinato e tumultuoso.

La stanza ove soggiornava era ampia e luminosa, e Baker, dopo una frugale cena, decise di anticipare il suo accesso presso il locale, al civico 137/a del summenzionato Corso Vittorio Emanuele, per il soundcheck con dei session-man che non conosceva: la sua attenzione fu ben presto attratta dal profilo regolare di una chiesa protestante, come quelle che tante volte aveva visto in Inghilterra, più precisamente a Londra, durante i suoi frequenti soggiorni al Ronnie Scott jazz club.

Il locale, in pochi anni, sarebbe divenuto una vera e propria istituzione locale, e fulcro della vita notturna culturale, favorendo memorabili incontri fra artisti del calibro di Andy Warhol e Joseph Beuys, esibizioni musicali e jam-session di altre star del jazz del calibro di Paolo Conte, Dizzy Gillispie, Stan Getz, Dave Holland, Sam Rivers, analogamente all’altro club musicale Otto Jazz, sito alla non distante Salita Cariati, ma tutto questo doveva ancora accadere, Chet ne sarebbe stato ovviamente all’oscuro.

Una delle poche certezze di Baker, nella sua impostazione di artista, era che la percezione del pubblico finisca col delimitare l’anima e la personalità del musicista, delimitandone i confini alla fruizione dell’opera, e riducendoli a caricature mono-dimensionali: quella sera fu magica, il pubblico straordinariamente empatico e partecipativo, e Baker si trattenne, dopo i due encore, tra cui una splendida versione di My Funny Valentine, nel dehor esterno del locale, a fumare e sorseggiare boubon-whiskey, incuriosito dalla creazioni di patisserie di Remy Gelo, dell’antica gelateria della Torretta, che le offrì ai musicisti ed agli ospiti.

La vita lo avrebbe portato lontano, di là a qualche mese, in Norvegia, dove avrebbe dovuto incidere l’ennesimo disco in studio con dei musicisti del luogo, sino ad arrivare al fatidico 1988, anno in cui perse la vita, per circostanze tutt’ora misteriose, al Prins Hendrik Hotel di Amsterdam: i ricordi del suo soggiorno a Napoli lo avrebbero accompagnato negli anni futuri, insieme al suo meraviglioso suono, come se avesse le ali per spiccare il volo verso la libertà, nella consapevolezza di essere sempre sé stessi.